maps III

maps III comprende opere realizzate con colori acrilici bottoni e spille su tessuto dal 2015 al 2019

about MAPS I II III

MAPS solo show at FEDERICO BIANCHI GALLERY 4 April 2013 Milano
Dal ripetersi di elementi urbani e di simboli del nostro tempo legati ai lavori precedenti, Jacopo Prina torna a creare una metafora del mondo intorno a noi, attraverso l’estrapolazione di frammenti della realtà per poi ricomporli sulla tela. La domanda è sempre la stessa: “Dove siamo?”. La mostra Maps raccoglie la più recente produzione dell’artista, in cui si denota un approccio differente.
La ricerca di Jacopo Prina si evolve: nelle produzioni passate cattura oggetti e persone attraverso la macchina fotografica, come un alchimista che esegue esperimenti e ne presenta i risultati. Si tratta di una visione orizzontale annessa a ritratti e a singole forme come espressione del contenuto interiore. Le persone escono dallo schema sociale cui si riferiscono e sono trasportate in un’altra dimensione. Negli ultimi lavori la prospettiva dell’artista muta e diventa verticale: il riferimento a Google Maps permette una presa diretta della realtà come vista dal satellite, definendo i nostri percorsi e itinerari quotidiani. Gli spazi sono sintetizzati in linee e colori, e gli oggetti prima piccoli e poi grandi, ci indicano la strada da seguire.
Fin dall’infanzia trascorsa a Milano, l’artista viene in contatto con un’infinità di forme geometriche e di oggetti standardizzati: luoghi di passaggio, come la metropolitana, le stazioni ferroviarie e gli aeroporti, ma anche di svago e di divertimento come i parchi giochi e i centri commerciali. Luoghi da utilizzare, non da vivere, in cui gli individui condividono in modo empatico la routine quotidiana. L’occhio è assuefatto e la mente piena di codici identitari che danno vita alla realtà contemporanea: le mappe non sono che metafora della nostra vita perennemente in transito.
Le mappe non offrono una risposta, ma diverse combinazioni. Le forme del vissuto quotidiano sono rovesciate sulla tela, senza dare importanza ad un oggetto piuttosto che ad un altro: è tutto sullo stesso piano. Il punto focale è l’ambiente, e le forme geometriche che si ripetono e si susseguono con dimensioni e ritmi diversi, sono le regole della società contemporanea. La sensazione di smarrimento è paragonabile all’apertura della mappa di una città sconosciuta. Ci troviamo di fronte alle identità morfologiche dei non luoghi.
I non luoghi sono ovunque intorno a noi: autostrade, stazioni, aeroporti, supermercati, grandi catene alberghiere, parcheggi e fiere. Si tratta di luoghi apparentemente anonimi, senz’anima, come contenitori di strutture omologate e ripetitive. Anche i numeri diventano geometrici: ogni tela sviluppa un’area apparentemente stereotipata, priva di riferimenti storici e culturali. E’ l’osservatore stesso a dare un’identità a ciascun luogo, riversando su di esso la propria esperienza e memoria. La contraddizione tra luoghi e non luoghi vive nei lavori di Jacopo Prina; sono stimolo per cercare noi stessi e dare risposte alle nostre domande.
Come denuncia l’artista stesso: “L’occhio dell’osservatore rimane spaesato di fronte a queste grandi mappe, sospeso da una forma ad un’altra. La ricerca di una risposta rimane una consapevole utopia”.
Federica Morandi

MAPS
Il mondo artificiale è il mio habitat naturale.
Perso nella geometria dei segni, cerco un orientamento nelle forme del creato (dall’uomo).
Dipingo mappe alla ricerca di una meta che so non esistere.
Jacopo Prina

MAPS comunicato stampa
Le opere di Jacopo Prina si presentano come mappe ideali stese sulla superficie, disposte per itinerari da percorrere attraversando la geometria dei segni.
Il senso del viaggio non è il raggiungimento di una meta, ma il viaggio in sé. Spazio e tempo si avvolgono e si srotolano lungo il percorso lasciando il pensiero libero e adatto alla meditazione.
È ricerca di identità attraverso i luoghi e le memorie che il percorso stimola o pura meditazione senza strade predefinite e obbiettivi da raggiungere. Il luogo è il viaggio, luogo della mente e qui del segno.
Dove mi trovo? Dove sono stato? Per rispondere a queste domande l’occhio dell’artista si pone sul satellite di google maps per vedere da un luogo “altro” e soprattutto contemporaneo.
I numeri, uno per quadro, siglano l’opera come timbro catastale e suggeriscono l’idea di un territorio più vasto da ricomporre. Quasi a voler rimappare la superficie intera del pianeta, o almeno la sua parte antropizzata.
Diversi sono i punti sul quadro che potrebbero indicare il luogo esatto dove ci troviamo o siamo stati, ma esso non è mai al centro del dipinto grazie alla visione indifferente del satellite che non privilegia un luogo rispetto a un altro. Sarà l’osservatore a scegliere. Se può o vuole.
Rombi, quadrati, cerchi sono sintesi formale del mondo artificiale che esiste intorno a noi.
I quadri sono realizzati con colori acrilici, le forme vengono impresse sulla tela, senza ragionamenti a priori, secondo un processo semi-automatico. Non sono l’esecutivo di un disegno predefinito. Ogni opera è un percorso (una mappa) che si distende sulla tela seguendo istinto ed emozione, su un canovaccio che esiste nel pensiero e che si formalizza di volta in volta attraverso il segno e il colore.
Segno che a volte corre veloce e netto, altre vibra creando un contorno apparentemente incerto (come il “vibrato” in musica e nel canto) lasciando l’impronta, irripetibile, del pennello.
Ogni opera è un viaggio a sé: ripensamenti, ingrandimenti e spostamenti avvengono direttamente sul dipinto lasciando inevitabilmente traccia della ricerca topografica e compositiva. Ciò lo rende vivo, autentico ed unico.

MAPS  Academy of Fine Arts n.15 2013
Nella nuova sede milanese della Federico Bianchi Contemporary Art Jacopo Prina tiene la sua terza personale in collaborazione con la galleria. I dipinti di grandissimo formato e di colori straordinariamente vivaci e dagli accostamenti marcatamente arditi sorprendono l’osservatore non appena varca la soglia, ma c’è dell’altro: l’organizzazione di queste superfici, che funzionano, secondo l’indicazione del titolo della mostra (Maps) come grandi frammenti di una estesissima visione topografica dall’alto, è composta dalla combinazione di forme geometriche
eseguite a mano libera, imprecise, “sbavate”. Ogni dipinto risulta come una sorta di prelievo di una zona dell’universo infinito vista da un satellite attraverso un nuovo sistema di rilevazione, quasi Jacopo avesse inventato uno strumento tipo google maps applicabile esclusivamente a territori squisitamente pittorici. Nel tessuto compositivo dal ritmo misto, a tratti sincopato ma a volte anche largamente disteso, tra i colori strabilianti per la loro spudoratezza o per la loro tenera ritrosi, si accampano laconici i numeri, uno per quadro, numeri che servono a distinguere un dipinto dall’altro ma che portano anche con sé l’idea di un territorio più vasto da ricomporre. Come se la superficie intera del pianeta fosse stata reinventata e rimappata.
“Il mondo artificiale è il mio habitat naturale” sostiene l’artista che fino a pochi anni fa usava il mezzo della fotografia per prelevare visioni urbane che lasciavano però l’osservatore nella sua posizione di osservatore verticale; oggi invece Prina, tramite questi dipinti che sembrano tappeti volanti, riesce a spostare radicalmente il nostro sguardo e il nostro pensiero sullo spazio che viviamo.
Elisabetta Longari

VISIONI URBANE  Juliet n.163 2013
“E così, come uno stregone o un veggente che esamina le sfumature nei fondi di caffè in cerca di rivelazioni, io compongo mappe, oniriche o fantastiche, in cerca di un orientamento o di un segnale che però so di non saper leggere”. (J.Prina)
Federico Bianchi Contemporay Art presenta la personale di Jacopo Prina dal titolo “Maps”, un lavoro nuovo e inedito. In mostra delle carte e cinque tele di grandi dimensioni, accumunate dall’uso del colore dai toni “pop”, non nuovi all’artista. Jacopo Prina è un cittadino, nato e cresciuto nella metropoli dallo skyline di palazzi e grattacieli. Il suo sguardo non si perde nella vastità dei campi, bensì urta e rimbalza tra muri e citofoni, tra piantine del metrò e linee dei parcheggi, tra centri commerciali e spazi ortogonali. Elementi dal sapore artificiale che egli sapientemente combina sulla tela.
L’artista stesso, racconta così la genesi della sua produzione:
“Dipingo mappe alla ricerca di una meta che so non esistere. Prendo il pavimento della galleria, la porta il tavolo con gli oggetti sovrastanti. E poi, uscendo, gli incroci, le caselle della posta, le linee della metropolitana e i terminal dell’aeroporto. Poi assemblo tutta questa enorme massa di oggetti su tela, attento a non rompere le strutture identificative di ogni elemento”.
Il piano orizzontale – preparato a monocromo e con campiture di colore uniformi – diviene la superficie su cui Jacopo riporta tutta questa esperienza visiva, frutto di una vita cittadina, facendo molta attenzione a gestire gli equilibri compositivi, soprattutto nelle opere di grandi dimensioni. Il risultato è un lavoro dalle cromie accese e brillanti, in cui attraverso forme e colori è possibile riconoscere – come in una “legenda” visiva – molte componenti di una realtà urbana, filtrata però dall’occhio dell’artista che ne soggettiva i riferimenti.
Queste Mappe non sono, dunque, geograficamente rintracciabili; l’ambito in cui il lavoro si sviluppa non è quello della ricerca di un riferimento diretto con l’ambiente circostante, che potrebbe essere esercitato attraverso la trasposizione in scala degli oggetti. Anzi, dai lavori proposti si evince il contrario: sono tracce di memoria, ricostruzioni intime di percorsi mentali che certo hanno un’oggettivazione in elementi tangibili ma dalla (ri)combinazione del tutto personale. Sono non-luoghi che trovano la loro radice nelle ricerche globalizzate di “Google maps” ma che non conducono a nessun indirizzo preciso, se non alla consapevolezza che i luoghi li identifichiamo noi stessi, con la memoria e i ricordi che ad essi associamo. Così come scrive la curatrice, Francesca Morandi, nel testo di presentazione:
“La contraddizione tra luoghi e non-luoghi vive nei lavori di Jacopo Prina; sono stimolo per cercare noi stessi e dare risposte alle nostre domande”.
Alessia Locatelli

I NUOVI LAVORI DALLE MAPPE DI GOOGLE  Arte Mondadori n.477 2013
Grigio, rosa, verde acqua, colori lievi e pastello scandiscono schemi geometrici elementari dalla potente sintesi grafica. E poi simboli e codici irriconoscibili. Jacopo Prina (Milano, 1971) fa emergere nei suoi recenti acrilici su tela, esposti da Federico Bianchi, lo scenario semplificato di un videogame un po’ démodé. Quegli ingranaggi astratti sono in realtà immagini lungamente rielaborate. Partono da una sintesi estrema delle mappe satellitari di Google. Rispetto alle precedenti opere, che mostravano sempre visioni orizzontali, ora privilegia la visione dall’alto. L’artista in quelle composizioni creava una partitura di geometrie astratte da cui emergevano facciate, strade e squarci urbani, in un collage di architetture ritagliate e a frammenti. Per dare ancora più forza a questa sensazione di spaesamento, ora ripete in modo ossessivo i dettagli di quegli oggetti e delle loro geometrie. Nella mostra milanese sono esposti cinque oli su tela di grandi dimensioni (cm 300×240) e sei pastelli su carta (cm 50×70). I prezzi di questi lavori possono variare a seconda delle dimensioni da 1.200 a 12mila euro.
Cristiana Campanini

GEOMETRIE DEL QUOTIDIANO   Small Zine n.11 del 2014
Gregorio Raspa/ Jacopo, mi parli del tuo processo creativo?
Jacopo Prina/ Il mio lavoro si sviluppa attraverso un particolare sistema di ricerca: estrapolo e combino elementi visivi tratti dallo spazio pubblico o da quello domestico. Mi stimolano i colori, le texture e le superfici che vedo intorno a me, che incrocio nel mio viaggio quotidiano. Le osservo sempre come elementi indipendenti dal volume su cui sono poste; ne seguo soprattutto le geometrie che, nel contesto urbano, risultano come limitate, irrigidite entro i confini che le ordinano. Tento di estrapolarle acquisendone solo l’aspetto estetico, separandole dall’oggetto a cui sono associate.
GR/ Utilizzi immagini inconsciamente archiviate nella memoria collettiva, potenzialmente in grado di attivare un processo emozionale, combinandole in mosaici asettici, volutamente anonimi. Nel tuo lavoro conta più la deduzione razionalistica o l’induzione percettiva?
JP/ Mi affido esclusivamente alla percezione visiva e a ciò che rimane impresso nella mia memoria. Seguo l’istinto, l’intuizione. Nella costruzione dei miei lavori evito ragionamenti preventivi.
GR/ Concettualmente asciutto e graficamente rigoroso, il tuo lavoro sembra coniugare elementi propri di una cultura estetica interdisciplinare che cita Mondrian e Gnoli, guarda con interesse al design di Noorda e alla grafica dei primi videogame Namco. Quali sono i tuoi punti di riferimento?
JP/ Guardo con interesse al linguaggio astratto in generale. Gli stimoli sono molteplici. Alle fonti citate aggiungerei le carte di Chillida, le “gouaches découpées” di Matisse, i lavori di Rothko, Capogrossi, Marca-Relli, Christo, Bacon e Giacomelli.
GR/ Da Pop Scratch (2005) a Maps (2013) la logica progettuale dell’opera è rimasta inalterata. Negli anni, però, è cambiata la tua prospettiva di osservazione del mondo divenuta sempre più ampia, distante e “complessiva”. Come mai?
JP/ È stato un processo graduale e naturale. Sono partito dall’osservazione di una realtà presente a poche spanne dai miei occhi fino a ricorrere all’utilizzo delle immagini satellitari della Terra archiviate su Google.
GR/ In passato hai realizzato anche delle sculture. Mi parli, ad esempio, di N.40 ?
JP/ N.40 è un’opera in pietra da me scolpita e successivamente colorata con acrilici. È come un nucleo di libertà circoscritta entro rigidi parametri. Vuole esprimere qualcosa che si avverte nella società: il controllo, l’esistenza di un ambiente geometrico che regola, limita, comprime esigenze espressive, ma anche desideri e bisogni.
GR/ Alterni, con disinvoltura, tecniche digitali, fotografia, collage, pittura e scultura. In arte, il fine giustifica i mezzi?
JP/ Non mi interessano le tecniche sperimentali, né sono alla ricerca di nuovi strumenti. Per ottenere il risultato che desidero scelgo, di volta in volta, lo strumento che ritengo più adatto.
GR/ Cosa stai preparando per il futuro?
JP/ Ora lavoro ritagli, creo composizioni con parti di carte e stoffe colorate che riproduco con l’uso della fotografia. In questo caso il lavoro scorre più velocemente, l’idea si concretizza sotto i miei occhi. Con questo metodo posso modificare la composizione seguendo ragione e istinto.
Gregorio Raspa

Nello specchio di Jacopo Prina Elisabetta Longari
È adesso subentrato un gusto quasi da archivio, introdotto tramite il prelievo sistematico di una serie di reperti materici organizzati secondo un criterio “misto”, in ugual misura partecipe delle categorie dell’ordine e del disordine, in modo da soddisfare tanto il lato razionale quanto quello fantastico che convivono in ognuno di noi. Forse sarebbe meglio parlare della composizione di un atlante, “figura” che rappresenta una declinazione più ricca e varia del recente ciclo delle mappe. Allo stesso modo delle mappe infatti queste nuove opere cercano “di rispondere alla domanda: dove siamo?”, come scriveva, cogliendo sinteticamente nel segno, lo stesso autore nel 2005 in un testo pubblicato sul catalogo che accompagnava la sua prima mostra personale milanese da Luciano Inga Pin.
Rispetto al passato ora ha maggiormente spazio e preso evidenza la componente ludica che innerva le opere di Esprit Dada, o Neo Dada, e di simpatie Pop.
Tra gli elementi applicati sulle tele e che su di esse orbitano come pianeti, troviamo oggetti di diversa natura: tessuti e passamanerie che fanno pensare a Baj, mascherine di cartone monocromo e di forme geometriche simili a quelle utilizzate da Hans Richter nei suoi primi film sperimentali di animazione, ma anche orecchini di foggia indianeggiante e bottoni appariscenti, di dubbio se non di cattivo gusto. Dunque la storia dell’arte non fatica a combinarsi con il kitsch, di cui Prina non ha paura ma in cui anzi riconosce una componente importante della nostra cultura.
Egli invece delle matite colorate usa i campionari di tessuti, che offrono gamme cromatiche e textures di varietà e ricchezza inimmaginabili. La realtà di tutti i giorni è dall’artista vissuta come serbatoio di meravigliosi materiali, il cui impiego conferisce alle opere un non secondario aspetto da tesoro delle Mille e una notte; eppure quelle stesse composizioni, sempre orientate all’astrazione nonostante la presenza di oggetti riconoscibili, hanno comunque un retrogusto quasi metafisico. I tagli e gli innesti di questi collage non possono che richiamare la distribuzione degli spazi nelle vetrine del De Chirico ferrarese mentre l’aspetto di piccolo monumento all’oggetto banale porta tra l’altro a ricordare i bottoni giganteschi e silenziosi di Gnoli.
Oltre a utilizzare il supporto di tela e gli inserimenti concreti, Prina lavora anche su riproduzione, in questo modo implicando un discorso sul simulacro più che sulla moltiplicazione delle immagini. Alcune delle sue opere sono di natura totalmente fotografica, e consistono nella stampa a colori di transitorie configurazioni che, esito anch’esse di un’operazione di collage, esistono quasi esclusivamente nel momento contingente dello scatto.
Se nelle due linee operative, che si tratti di pittura con applicazioni di “oggetti” su tela o di fotografia, la matrice delle immagini è la stessa e la modalità di aggregazione degli elementi compositivi pure, a cambiare profondamente è invece la sostanza del corpo delle opere.
Gli oggetti e i tessuti posti in dialogo con la pittura acrilica hanno uno spessore materico, una loro naturale e reale tridimensionalità, mentre i teatrini di elementi eterogenei che vengono organizzati, fotografati e stampati hanno delle qualità diverse, prima fra tutte una resa impressionante delle trame, delle sfrangiature, dei rilievi, delle ombre e perfino delle trasparenze che fanno sentire lo spessore e la tridimensionalità degli oggetti con una temperatura più fredda e mentale. Una fotografia e una stampa talmente raffinate da salvare la sostanza artigianale dei tagli al vivo delle carte e dei tessuti, tanto è vero che questa tecnica, certamente più veloce rispetto alla pittura, se utilizzata in questo modo riesce a comunicare lo spiccato gusto dell’autore per il bricolage. Poiché non v’è dubbio, egli ama maneggiare questi materiali quotidiani e incantati al tempo stesso.
Un bottone diventa subito un occhio, una pezza di tessuto dalla forma tondeggiante è un volto. Molti personaggi affiorano da queste situazioni inscenate per gioco e per gusto dell’accostamento ardito. Una matita, simile a un signore smilzo e allampanato, e il re di quadri, convenzionale e autorevole dall’alto del suo status, si incontrano con i numeri e la carta da parati a grandi fiori. Il mondo è lo stesso impossibile e splendido guazzabuglio dove si è trovata a districarsi, divertendosi all’inverosimile, Alice di Lewis Carroll.
Le textures dei tessuti applicati tramite il collage dialogano con la pittura, il più delle volte funzionano come sfondo, tanto è vero che spesso i pattern si ritrovano anche nei lati del quadro, dunque ne costituiscono direttamente il supporto teso sul telaio; le trame astratte delle stoffe si incontrano/scontrano con le forme a pettine delineate e tracciate dal pennello. L’assemblage degli scampoli di tessuti di diversa destinazione, provenienza, consistenza e colore, sono una convincente metafora di come va il mondo: sono brani della nostra vita, parlano di noi, dell’arredamento delle nostre case e del nostro abbigliamento, degli abiti e degli ambienti di cui ci circondiamo.
Molti sono gli echi culturali che le sagome dipinte introducono, mentre a volte ricordano le creature leggere di Klee e di Kandinskii, altre fanno pensare ai “geroglifici in evoluzione” sui rotoli di Hans Richter (si pensi specialmente a Preludio), restituendo il senso del movimento del tempo e nel tempo.
Anche le forme circolari, apparentemente più statiche, in verità somigliano a cellule che migrano da sinistra a destra, secondo la direzionalità tipica della lettura propria alla cultura occidentale. Queste forme che nella loro integrità si danno come le figure più compiute per eccellenza, i cerchi e i dischi, nell’opera di Prina sono facilmente interrotte e spezzate: sui lati del supporto, sia a destra che a sinistra, molte di esse suggeriscono il loro completamento ideale oltre ai bordi, presentandosi pertanto come visioni parziali di un qualcosa che sfugge nella sua totalità. L’ effetto così ottenuto ha la caratteristica di sottolineare l’andare, l’andamento, la trasformazione e il transito. In una parola il tempo che passa e cambia la sostanza di ogni cosa.
E questo legame con la vita, insito nei resti e reperti della realtà che compongono i singoli lavori, si fa ancora più manifesto nel volo delle opere sulla parete, nel modo di allestirle utilizzando la superficie del muro come se fosse il supporto di un’unica installazione, che segue la stessa logica compositiva dei più piccoli “frammenti” e partecipa della medesima appassionante sintassi di aggregazione e disgregazione degli elementi. E noi, con i nostri gesti e i nostri colori, ci accorgiamo presto di essere parte integrante di un’opera sempre in fieri.